Vi racconto Montevertine
Martino Manetti è come il suo vino. Sincero, tradizionale, amante delle cose che durano nel tempo. E’ per questo che coltiva ancora la vigna che trovò suo padre, a Montevertine, quando rilevò la proprietà ad un’asta dal vescovado di Fiesole. E’ per questo che ne ha mantenuto il nome, “Le Pergole Torte“ , che le aveva assegnato il vecchio fattore. Anzi, di quel nome, scavato nella terra e salito verso l’alto con forme irregolari, ne ha fatto un vino di successo planetario, un vino che ha un’acidità così marcata che se metti in bocca un 1995 o un 1988, sembra di averlo vendemmiato qualche ora prima.
Martino è convinto che non farà mai più un vino buono come il suo 1990, la sua prima vera annata da quando entrò a tempo pieno in azienda, 1989, ma da quello che abbiamo sentito la sua sembra più una battuta scaramantica che la realtà.
Nei giorni scorsi siamo andati a trovarlo nella tenuta di famiglia, meravigliosamente disposta su un colle circondato da vigneti. Per arrivarci serve pazienza, per goderla bisogna mettersi calmi in giardino e ascoltare il silenzio. Ricorda in tutto e per tutto il Pergole Torte. Montevertine ha un’anima antica, quella del grande Sergio Manetti, che ha costruito la fama dell’azienda, quella di Giulio Gambelli, che è ancora maestro assaggiatore, ma anche quella di Martino, un “ragazzo” amante della Fiorentina e della vita di campagna (produce anche olio e salumi da maiali allevati nella sua proprietà).
Martino non ama i compromessi, le cose facili. Per questo durante la nostra visita non ha risparmiato una critica al Consorzio del Chianti Classico (dal quale l’azienda non fa più parte addirittura dal 1981) e al Chianti Classico in generale per quel disciplinare considerato troppo permissivo e all’origine della “perdita di identità del vino”. Secondo lui consentire il 20% di altri uvaggi da assemblare con il Sangiovese è troppo, perché così il vino perde il suo carattere identitario. E’ una critica che lui ha trasformato nel suo credo più profondo: a Montevertine comanda il Sangiovese con poche eccezioni. Nessuna però nel Pergole Torte, il top della gamma, né nel Montevertine, una sorta di secondo vino che se non fosse per il fratello maggiore potrebbe vestire tranquillamente i panni del protagonista principale.
Solo nel Pian del Ciampolo, “il vino senza pensieri” di Martino, buono per una sera fresca d’estate come per una serata davanti al camino, si affacciano Canaiolo e Colorino, comunque nel solco della grande tradizione vinicola toscana. Guai invece a parlargli di Cabernet Sauvignon, mentre all’idea folle di coltivare il Pinot Nero presta l’orecchio, lui che è grande appassionato di Borgogna con una cantina personale da fare invidia, giusto il tempo per rispondere: “Qui non viene bene. E’ la terra insomma che comanda, sono la vite e l’uva. L’uomo “si limita a fare meno danni possibile, non a sciupare il vino”.
Girando per la sua cantina, tra gli scaffali con le vecchie annate storiche di Pegole Torte, bisogna dire che c’è riuscito, come testimoniano anche tanti ricononscimenti delle riviste di mezzo mondo attaccate alle pareti. Sono arrivati grazie alla ricerca di un’alta qualità in vigna e ad un uso sapiente del legno, mai dominante nel processo di elevazione del vino: un anno appena in barriques, non nuove, per il Pergole Torte, nessun passaggio per il Montevertine e Pian del Ciampolo. Botte grande usata più volte, fino a 25 anni di età, ancora per il Montevertine, Il Pergole Torte e il Pian del Ciampolo. “Il legno serve a dare struttura, a completare il vino, non a farlo”, spiega Martino con una punta di soddisfazione ricordando gli anni all’inizio del nuovo Millennio, quando la barrique dominava il mercato e il gusto e quando lui, ammette adesso, si è trovato “un po’ in difficoltà”. Quel tempo ora è lontano ed è arrivato quello del vino vero, dell’identità della terra, il momento in cui trionfaquel modo di essere che “a Montevertine non è mai cambiato, in 40 anni di storia”.